Riflessioni teatrali da una trincea
Discutere e parlare di Teatro in Italia potrebbe apparire una vuota e inutile esercitazione retorica, adatta solo a fare sfoggio di citazioni più o meno erudite. Nel secolo XXI, nell’era di internet, di videocellulari, di macchine volanti, l’idea di una legge che regolamenti o disciplini il Teatro appare, a una prima sensazione, come discutere di antropologia o di riserve naturali per esseri in via d’estinzione e quindi da trattare come tali a cui riservare oasi protette.
Forse sarebbe il caso di rivolgersi al WWF piuttosto che ai nostri legislatori; hanno più dimestichezza con animali e piante rare.
In realtà in tutti i disegni di legge che si sono succeduti negli ultimi quarant’anni, mai giunti ad essere approvati, con tenacia e perseveranza c’era l’affermazione, magari con parole diverse, che il Teatro, o meglio lo Spettacolo dal vivo, come viene definito da qualche anno in qua, rappresenta una “componente fondamentale del patrimonio storico culturale e artistico del Paese”.
Davvero una bella premessa; peccato che la frase successiva, a completamento, ancora più impegnativa “…e ne tutela la libertà l’autonomia e il pluralismo”, non abbia mai avuto concreta applicazione.
Del resto si sa che di buone intenzioni è lastricato il mondo, e i disegni di legge contengono davvero una miriade di ottime proposizioni, volendo disciplinare e incentivare e promuovere e tutelare e istituire e… fare davvero tutto il possibile e l’impossibile affinché il Teatro diventi un Eden colorato in cui il popolo in massa si riversa ad assistere a spettacoli intelligenti, divertenti, educativi, e gli attori, i registi, gli autori, diventano persone soddisfatte e orgogliose di partecipare alla crescita e alla formazione di un pubblico sempre più colto ed entusiasta.
La realtà è molto diversa; noi abbiamo trascorso gli ultimi 14 anni in una trincea, circondati da nemici che con pazienza certosina hanno edificato fortificazioni sempre più grandi e maestose, aspettando con calma che la nostra forza si esaurisse e ormai esausti alzassimo bandiera bianca dichiarandoci prigionieri e rinunciando a proseguire il combattimento.
In questi dodici anni abbiamo provato a realizzare qualcosa che servisse non solo alla soddisfazione personale ma anche ai nostri interlocutori, cioè la gente, gli spettatori, coloro per i quali esistiamo. Senza la pretesa di educare o di rendere migliore, ma solo cercando di essere onesti con chi pagava un biglietto per vedere i nostri spettacoli.
Abbiamo scelto la strada delle produzione di testi nuovi, di autori contemporanei, viventi addirittura, per raccontare la storia della nostra società, del mondo che ci circonda; a volte usando la commedia, altre il dramma o la poesia o l’ironia; abbiamo cercato di coinvolgere autori, attori, registi, giovani e meno giovani, andando in giro per l’Italia anche in posti lontani, meno frequentati dalle grandi produzioni.
Se raccontiamo questo però non è per darci meriti che non crediamo di avere, ma solo per spiegare che un disegno di legge che voglia davvero fare qualcosa per il Teatro italiano, deve contenere poche cose, semplici, ma concrete, senza la pretesa, lodevole ma poi irrealizzabile, di occuparsi di tutto e di parlare di tutto. Una buona legge dovrebbe affermare pochi principi fondamentali su cui edificare gradualmente la Casa del Teatro; uno di questi, scritto in modo semplice e chiaro, dovrebbe essere quello di obbligare, in senso letterale, anche se un verbo simile è considerato scandaloso, obbligare i Teatri Stabili e tutti coloro che vogliono ricevere sovvenzioni dallo Stato, a produrre il 50 % di novità italiane contemporanee.
E’ una norma elementare, chiara, talmente semplice da sembrare banale; eppure non si capisce perché nessuno ha mai pensato di scriverla; una nazione civile, che abbia davvero voglia di affermare la propria identità culturale, non può permettere che le culture degli altri Paesi siano talmente invadenti da cancellare ogni residuo di appartenenza; e lungi da noi voler sembrare autarchici o nostalgici di forme vetero-culturali che non ci appartengono. Il problema è la pari dignità, è poter combattere ad armi pari, avere le stesse opportunità, cosa che dal dopoguerra in poi è stata negata agli Autori italiani.
Il principio è semplice; lo Stato, e quindi la collettività, deve difendere chi racconta il bene e il male della nostra società italiana contemporanea, perché così facendo contribuisce a denunciare e far riflettere su ciò che è giusto e sbagliato, consegnando alle generazioni successive un patrimonio culturale su cui ragionare; questa è la funzione della Drammaturgia contemporanea, che diventa con il tempo “classica”; senza Plauto, Machiavelli, Goldoni o Pirandello, saremmo tutti più poveri e ignoranti.
Così pensiamo che una legge ben fatta debba prevedere innanzitutto un Osservatorio che governi e giudichi, composta da venti trenta persone, che si dividano i generi teatrali o le categorie se preferite, e siano in grado di valutare, secondo criteri di qualità e di grandezza, chi ha fatto cosa.
Non bisogna avere paura del merito e del giudizio; però le regole devono essere semplici e chiare; il teatro non è tutto uguale e ciascuno deve essere libero di assecondare il proprio gusto, la propria inclinazione, sapendo che non si scontrerà con giganti o nani e ballerine.
Vogliamo dire che dividendo in categorie diventa più facile giudicare; quindi il Teatro Classico, quello Contemporaneo Vivente, quello di Ricerca e Sperimentazione, quello per i Giovani, sono quattro grandi settori che devono poter convivere con pari dignità e con uguali mezzi di finanziamento, e chi decide di lavorare in uno non deve avere timore di scontrarsi con l’altro o essere giudicato con gli stessi parametri.
L’Osservatorio, istituito presso il Ministero della Cultura e dello Spettacolo, che attualmente non esiste e che dovrebbe essere invece costituito, avrebbe il compito di dividere gli operatori, le compagnie, coloro che producono spettacoli, all’interno delle categorie, e successivamente in ordini di grandezza relativi alla forza e ai mezzi impegnati; quelli che oggi si definiscono Teatri Stabili, siano essi pubblici o privati, non possono diventare concorrenti di coloro che non hanno una sede fissa, una residenza, andando in giro con i loro spettacoli e occupando spazi e programmi che invece devono essere lasciati a chi decide di rischiare i propri capitali.
I componenti dell’Osservatorio, retribuiti, dovrebbero vedere di persona gli spettacoli, e laddove non fosse possibile per l’eccessivo numero di produzioni, attraverso video che oggi è semplice realizzare; pur valutando che la resa è diversa rispetto a uno spettacolo dal vivo, sarà pur sempre meglio che il nulla.
I finanziamenti dello Stato sarebbero basati quindi su relazioni competenti e documentate e non su astratti rendiconti finanziari e parametri solo quantitativi. Le schede di valutazione dovrebbero essere comunque immesse nella Rete, in modo da consentire la massima trasparenza del giudizio e un possibile contraddittorio pubblico. Inoltre a queste si dovrebbero aggiungere, per una valutazione complessiva, il numero degli spettatori paganti, le repliche effettuate, le città visitate, e soprattutto il giudizio del pubblico attraverso schede sintetiche distribuite nei teatri.
L’esperienza maturata in questi dodici anni di trincea ci porta poi a diffidare di una delega sic et simpliciter alle Regioni; ci sono troppe differenze nella nostra lunga e complessa penisola per non capire che si creerebbero sperequazioni e diversità tra nord centro e sud, così come esistono già e sotto gli occhi di tutti, producendo risultati disastrosi.
Le Regioni hanno già i loro problemi con la sanità e la formazione e lo smaltimento dei rifiuti e tante altre deleghe che sono aumentate negli anni; perché gravarle di altri compiti quando non riescono a seguire adeguatamente ciò che devono?
Piuttosto si pensi a creare uno strumento finanziario che faciliti l’accesso al credito, come una volta esisteva la BNL, con condizioni di favore, e soprattutto si pensi a detassare chi investe e contribuisce a produrre spettacoli teatrali, e infine si provi a distinguere il finanziamento degli oneri sociali da quello degli allestimenti; e infine si abbatta l’iva sugli spettacoli così come previsto per l’edilizia; così come si facilita chi costruisce nuovi spazi abitativi per la gente, si può e si deve aiutare chi costruisce nuove coscienze e nuovi individui attraverso la creazione di prodotti culturali.
Dalla trincea in cui viviamo da dodici anni, assistendo sempre più increduli e impotenti alla crescita di nuove sperequazioni, umilmente e sommessamente vi lanciamo queste modeste riflessioni.